La sentenza n. 1029 del 7 maggio 2020 della II° sezione del Tribunale di Firenze affronta la problematica del soggetto su cui deve addossarsi la responsabilità dei danni cagionati dall’animale detenuto presso un maneggio, e, in particolare, se tenuto al risarcimento del danno sia il titolare del maneggio ovvero il proprietario dell’animale.

In astratto, sono due le fattispecie giuridiche che potrebbero essere invocate, sia ben chiaro in via alternativa: da un lato, l’art. 2050 c.c. rubricato “responsabilità per l’esercizio di attività pericolose”; dall’altro, l’art. 2052 c.c. sul danno cagionato da animali.

Orbene, il discrimen si innerva nella fonte della dedotta responsabilità: “se la fonte è l’organizzazione del centro ippico, e vi sono delle falle e carenze nell’organizzazione dell’utilizzo dei cavalli da parte degli avventori, esempio percorsi pericolosi vincolati, organizzati per allievi inesperti che non possono in alcun modo avere il controllo dell’animale, certamente trova applicazione la prima norma, quella che pone una responsabilità di posizione del titolare del maneggio per l’obbiettiva pericolosità dell’attività d’impresa”.

Diversamente, allorché la fonte della responsabilità sia il comportamento attivo dello stesso animale in rapporto ai danni subiti dal terzo, trova applicazione l’art. 2052 c.c..

Dopo aver sussunto la vicenda concreta nell’ambito dell’ultima disposizione citata, il Tribunale delinea il fondamento e i presupposti del predicato normativo di riferimento.

L’art. 2052 c.c. configura una responsabilità oggettiva dell’utilizzatore dell’animale, il cui “fondamento trova le sue radici nell’antico diritto romano e in particolare nei profitti e vantaggi che l’animale fornisce all’utilizzatore nella sua funzione economico sociale o solo sociale o solo economica”, applicabile “a tutti i tipi di animali anche a quelli che non hanno propriamente un’utilità economica come possono essere ad es. gli animali di sola compagnia”.

In tale assetto normativo, dunque, del tutto irrilevante si manifesta il versante della colpa dell’utilizzatore, su cui il giudice non è tenuto nemmeno a indagare.

Non è tutto: dall’irrilevanza di un diligente rapporto di custodia discende “anche il fatto che, qualora il proprietario affidi ad altro soggetto il suo animale solamente perché lo custodisca, lo alimenti e lo curi, ma senza utilizzarlo per finalità economiche, non si trasferisca la sua posizione di garanzia sull’animale al custode; dei danni sofferti dai terzi anche quando l’animale sia custodito presso un altro soggetto, continua a risponderne il proprietario”.

L’unica possibilità per il proprietario dell’animale di esimersi dalle conseguenze risarcitorie è quella di dimostrare il caso fortuito, ossia di un evento qualificabile come causa esclusiva del danno e idoneo ad elidere l’intero rapporto causale con il fatto dell’animale, che può consistere anche nel fatto del terzo o nella colpa del danneggiato, ma che deve comunque presentare i caratteri dell’imprevedibilità, inevitabilità, e assoluta eccezionalità.

Lo stesso regime, quindi, cui è sottoposto il custode della cosa ai sensi dell’art. 2051 c.c..